sabato 5 dicembre 2009

Lo spirito contro il razzismo

Nel momento in cui gravi crisi attraversano la società, le religioni e la vita delle persone, occorre riflettere sulle scelte che, singoli e associazioni, debbono assumere per restare presenti e vigilanti nella storia. Personalmente penso che la cosa più importante, in questo momento storico, sia coltivare un pensiero critico e aperto perché non credo che le grandi sintesi ideologiche o religiosi possano oggi sospingere il mondo.


Grandi temi come il razzismo o l’amata e sognata pace vanno affrontati con la capacità critica che affiora dalla nostra stessa quotidianità. Non c’è nessuna ideologia che sostiene le reali inquietudini, né i reali drammi umani; credo invece che nuove aspirazioni possano nascere dalle differenti discipline, soprattutto quelle che restano inquiete e sveglie: nessuno possiede, per fortuna, le ricette e nessuno è proprietario delle soluzioni.

Oggi è finito il tempo dell’infanzia, cioè di illusorie attese di salvezza. Oggi l’essere umano può essere creativo dal di dentro. So che nel mondo ci sono rigurgiti nostalgici che cercano di resuscitare fantasmi ideologici; per fortuna essi appaiono già vecchissimi e privi di ogni autorità, come avviene con i fantasmi dei film dell’orrore postmoderni, che debbono attrarre l’attenzione col sangue e con il sesso, ma non hanno più il fascino quasi mitologico che avevano quelli antichi in bianco e nero.

Tra i vari rigurgiti ce ne sono di pericolosissimi, come il razzismo, ma credo anche che ciascuno di noi, nonostante i nostri sodalizi ideali, sia un po’ razzista, mentre agli stupidi di turno nell’ambito politico di qualsiasi colore, tocca solo organizzarlo e istituzionalizzarlo. Il razzismo non è solo di gente ricca o borghese, è a volte, improvvisamente di tutti (pensiamo a Hitler che non era né ricco né borghese). Il razzismo è la meschinità e l’ottusità del nostro spirito; è il moralismo; sono le nostre taccagne logiche sulla giustizia e sulla solidarietà; la frustata visione che abbiamo della proprietà, tra benessere raggiunto e obbiettivi mancanti.

Lo spirito e l’anima non sono razzisti, ma come recuperare lo spirito, come recuperare l’anima? Quante cose dobbiamo ancora capire e di quante cose dobbiamo ancora parlare: sono sempre più convinta che lo spirito sia anarchico, come dice Giovanni nel capitolo terzo del suo vangelo e noi dobbiamo ancora trovare le sue impronte, lasciate qui e là. Siamo troppo abituati ai dualismi, alle dicotomie, alle gerarchie per non essere razzisti. Il dialogo comunque deve restare aperto e guai a chi lo chiude.

domenica 17 maggio 2009

Vivere nel terzo millennio

La teologa Antonietta Potente, durante il 66° corso internazionale di studi cristiani, tenutosi nell'agosto del 2008 presso la Cittadella di Assisi, è intervenuta su alcuni temi di grande rilievo all'interno dibattito religioso e culturale mondiale.

Per vedere il video clicca qui.

domenica 15 marzo 2009

... Bisognerebbe essere un po’ alchimisti, maghi e poeti per poter solidarizzare con tutti coloro che nonostante tutto hanno speranza e pensano, creano e ricreano la storia tutti i giorni...
(Antonietta Potente)

Restiamo svegli sul tempo storico che ci sospinge

di Antonietta Potente


Che è un oceano?
Il mare è solo un lungo sogno

che sta sognando la terra

tra altalene di soli…

È il sogno della terra addormentata su una fiamma…

E che cos’è un sogno ? Un sogno…vediamo…un sogno…

Lasciamo la lezione per domani…

(Dulce Marìa Loynaz. Poetessa Cubana)

Osservo gli ultimi movimenti che si delineano in questa parte di storia dove vivo (Bolivia); percepisco l’importanza di questo tempo, il peso che può gravare sulla vita di tante donne e uomini comuni, bagnati una o più volte in battesimi di sangue e fango, sabbia, roccia, sole e pioggia, per poter incontrare l’arte della vita e il diritto a plasmare il proprio destino.
Scelgo un avvenimento tra tanti, più o meno nitidi; uno di quelli che ha avuto ripercussioni internazionali: la vittoria del «Sì» e dunque l’approvazione della nuova Costituzione politica dello Stato boliviano. Uno Stato, come scandisce lo stesso testo: plurinazionale e multietnico.
Come ogni avvenimento sociopolitico, anche questo provoca echi differenti, sia a livello nazionale che internazionale, ma personalmente non voglio commentare questa nuova possibilità a cui siamo giunti come popolo, ma piuttosto raccolgo alcune domande che, come nel poema che introduce le mie riflessioni, sottendono costantemente la vita e, anche in questo caso, guai se smettessimo di formularle, anche se fosse solo, nel segreto introspettivo delle nostre storie. Che cos’è…un oceano…un mare…una terra addormentata…un sogno. Non a caso ho scelto una poetessa che fa parte della tradizione culturale cubana; non a caso raccolgo il suo eco lasciato nel tempo, ancora più in là del suo sogno o della sua stessa vita e di quella della sua isola.
Come sempre e, sempre più volutamente, le mie riflessioni resteranno sospese nel tempo presente e, come canta questo bellissimo poema…lasceranno la risposta per domani…, così come ogni sogno, davanti a una più o meno certa realizzazione, non cesserà mai di accompagnarci e inseguirci in ogni giorno che ha ancora da venire.

Gli echi storici.
So molto bene che, dovuto alla situazione politica europea e soprattutto italiana, ogni intuizione di cambio alternativo nel panorama politico mondiale, sembra rianimare il respiro di chi sogna ancora una politica diversa da quella che, da anni, si è consolidata nel potere economico e sociale del neoliberalismo postmoderno.
Per questo, capisco che ogni eco che arriva agli orecchi dei sensibili uditori assetati di nuove macro e micro strategie politiche, solleva gli animi e crea un alone di speranza, soprattutto in quelle persone o gruppi che hanno sempre accompagnato processi di autodeterminazione dei popoli in differenti continenti e con differenti soggetti. È dunque normale, che i successi sociali di popolazioni con maggioranza indigena, o la introduzione di nuovi attori politici nel panorama mondiale, come per esempio Obama, facciano pensare alla realizzazione di un sogno. È normale anche che, per lo meno gli ambiti di tradizione di sinistra, guardino con interesse il capillare movimento politico dei popoli latinoamericani, tra riflessioni metafisiche e prassi alternative di vita e di economia.
Ed è proprio dal panorama latinoamericano che, ormai da un po’ di anni, giungono, anche se in modo diverso, echi di cambio. Tutti guardiamo con simpatia e speranza alle quotidiane metamorfosi di paesi come Bolivia, Ecuador, Paraguay, Brasile, convocati e assistiti da un Venezuela sempre più «primo attore». Nonostante tutto ciò, anche queste nazioni coinvolte in processi politici che attirano l’attenzione e alimentano la speranza di molti, in realtà restano ancora avvolti in correnti che in qualche modo bloccano il cammino vincolandole tra vecchio e nuovo.
Forse è per questo che, chi sta da questa parte del mondo, chi ha percepito i primi movimenti strategici di moltitudini di persone nelle loro quotidiane rivendicazioni, tra sogni di dignità e benessere, tra ancestrali fedeltà e nuove strategie economiche e sociali, percepisce che il cammino è ancora lungo. Chi ha visto infatti da vicino e ha avvertito sulla propria pelle e su quella degli altri una sensazione di brivido, vedendo varie volte l’alternarsi di presidenti o interi governi, nel giro di pochi mesi, giorni, ore o secondi, è probabilmente soggetto a una visione più critica su quello che accade nel mondo e anche nel mondo latinoamericano e, certamente non si pacifica e non si accontenta di vedere riuniti i capi di stato di questi paesi emergenti, o ascoltare i loro discorsi, anche quando tra di loro tracciano un’unica trama e una sola strategia.
È proprio su questo punto che irrompono i versi della poetessa cubana e soprattutto l’ultima parte…il sogno…la risposta lasciata per domani… Così che, se pur persistendo e appoggiando i sogni segreti e i concreti processi di cambio e, continuando a contrapporsi energicamente e criticamente a coloro che invece vogliono sviare questi processi e indebolire ogni tentativo alternativo. Mantengo infatti una sottesa nostalgia per qualcosa che, per ora, abbiamo solo visto o… salutato da lontano, come dichiara il testo biblico neotestamentario della lettera agli Ebrei (Cfr. Eb 11).

Il fantasma del populismo.
Circondata dunque da questi processi ancora in atto, vivendo notti inquiete che alimentano pensieri, paure, ma anche ulteriori sogni, mi ritorna in mente un antico testo profetico, a mio avviso molto interessante in questa congiuntura latinoamericana. Mi riferisco ad alcuni versetti del libro profetico di Daniele; una sorta di lamentazione di cui, oggi, come allora, forse non abbiamo ancora compreso il vero significato e la sua potenzialità mistico-politica. nella crescita di un popolo e di una umanità in cerca del riconoscimento della propria maturità, come direbbe Bonhoeffer: un mondo maggiorenne. Ed è proprio stando da questa parte di mondo che oggi come oggi, ritorna questa immagine biblica come una sfida silenziosa e perenne lanciata ai nuovi attori politici o alla politica in generale, una politica che sembra cadere nelle stesse trame di sempre.
Il testo a cui faccio riferimento è quello di Daniele 3,38: …ora non c’è più tra di noi principe, profeta o caudillo, sacerdote e olocausto, sacrificio, oblazione né incenso né un luogo dove possiamo offrire le nostre primizie.
Questo testo, probabilmente raccolto da una lunga litania di dolore, e ricordato sempre in momenti considerati drammatici lungo il cammino di un popolo in ricerca di liberazione, in realtà, a mio parere, sottende qualcosa di molto più profondo e ispiratore. Forse potrebbe diventare una e vera e propria critica a una mentalità che in realtà soggiace dentro ogni visione politica e religiosa di tipo soteriologico (salvatrice).
Infatti, sembra quasi che in ogni processo di liberazione, di crescita e di corresponsabilità socioeconomica, non riusciamo a pensarci senza nessuno che ci guidi, che faccia le veci di noi stessi e delle nostre responsabilità. Sembra quasi che allora, come oggi, tutti cerchiamo comunque e sempre un rappresentante, un mediatore, un leader, qualcuno che guidi.
Mi riferisco a processi di cambio che, in un modo o nell’altro, ricadono in un certo caudillismo o populismo che in fin dei conti è un nuovo processo di dominazione di pochi su una immensità che nessuno può contare e che comunque è la unica e vera protagonista di evoluzioni e rivoluzioni storiche economiche e politiche da cui sono nati questi stessi principi, sacerdoti e caudillos .
L’arte della sopravvivenza alternativa dei popoli, resta un mistero che sottende, qualcosa che, per esempio, dal punto di vista teologico, leggeremmo come una e vera e propria opera alternativa di un sogno divino che come nella genesi dei tempi, sorvolava le acque e creava ancora più caos fino a partorire infinite e differenti esistenze. È comunque certo che quest’arte alternativa non è sinonimo di perfezione o assenza di ambiguità, ma solo teatro di sempre nuove possibili alternative e cambi. E probabilmente è su questo piano che si gioca la lamentazione del profeta. Pensare che il popolo abbia sempre bisogno di persone che facciano da mediatori e quindi da leader politici o religiosi. Da questa lamentazione sembra proprio che non riusciamo mai a stare senza distaccate o evidenti figure istituzionali che ci rappresentino. In questa prospettiva sembra che cadiamo tutti e destra e sinistra si assomigliano e coincidono, così come coincidono istituzioni religiose e politiche.
Mentre il mondo che si considera adulto e cerca bene o male di togliersi di dosso ogni dipendenza, dottrinale, ideologica, il sistema politico anche quello che si presenta come alternativo ai vecchi sistemi, non riesce a inventarsi e pensarsi in un altro modo.
Così che il lamento del profeta che nel quadro biblico si potrebbe anche capire, visto ciò che significavano quei ruoli nell’universo simbolico del popolo di Israele, oggi come oggi, lo potremmo rileggere in un altro modo. Una storia, infatti, che si continua a pensare rappresentata da capi, sacerdoti o profeti non è ancora una società veramente responsabile e creativa. Anzi questi processi assumono un aspetto molto ambiguo rivestendo i processi di liberazione di un tono profondamente populista e sappiamo che ogni populismo è comunque negativo.
Oggi, senza retrocedere o negare i parti storici latinoamericani, sentiamo che il momento che viviamo non è un nuovo ordine politico, ma un tentativo ancora molto lontano da quella che può essere una possibilità alternativa. In realtà anche qui, non abbiamo trovato ancora un altro modo di far politica. Eravamo fiduciosi in sapienze alternative, gestioni differenti della vita e visioni del cosmo diverse. Come donna, in realtà, questa critica e questa paura, la attribuisco a che il modello sociopolitico comune è comunque un modello che fa parte dell’immaginario collettivo maschile di cui, dopo secoli, non possiamo ancora liberarci. Ogni rivoluzione ed evoluzione ci sembra possibile solo se portata avanti da questi rappresentanti maschili. È sintomatico nella profezia di Daniele, come questa lamentazione gira intorno alla mancanza di leader maschili. Così oggi come oggi, la politica latinoamericana soffre ancora questo pericolo; sembra che l’essere umano abbia bisogno di recuperare i suoi eroi, indigeni o meticci, ma comunque leader che si sentono rappresentanti di una moltitudine, dentro processi che per ora assicurano la sopravvivenza ma non sono ancora una vera possibilità alternativa. Senza sottovalutare niente di questi processi in atto nel mondo, non guardiamo la realtà come se queste fossero vere e proprie visioni di liberazione, ma piuttosto, restiamo critici, sentendo che per ora abbiamo solo intravisto qualcosa e che questi sono processi di transizione che vanno accompagnati e che hanno bisogno non solo di sostegno o solidarietà economica e politica, ma di un acuto senso critico e una ascetica vigilanza per non abbandonare un sogno dove prima o poi davvero e per fortuna, non ci saranno più profeti, né principi, né sacerdoti… né luoghi privilegiati per ottenere mediazioni particolari.
So benissimo che queste opinioni sono discutibili e che probabilmente per quelle persone che leggono alcune riviste o alcune pagine web, possono risultare riflessioni pericolose visto che, dopo il forum mondiale tutti continuiamo a pensare che abbiamo già trovato spazi alternativi e che i popoli sono coscienti di questi processi di cambio e soprattutto di ciò che questi processi comportano. Ma la mia inquietudine continua, perché ciò che rende questi processi più deboli non sono solo le minacce esterne, le ambigue politiche internazionali e i giochi economici degli organismi finanziari o la piovra dei poteri di entità transnazionali con le loro mafie politiche affiancate anche da quelle religiose. Ciò che rende precari i nostri processi alternativi sono anche alcuni fattori interni, come per esempio un certo caudillismo politico, o modelli ora mai obsoleti nell’immaginario individuale dell’essere umano postmoderno e soprattutto delle fasce culturali di altre provenienze e in quelle fasce più giovani, ma che in realtà restano in vigenza nel quadro politico più comune. Forse ancora una volta la vittoria delle opposizioni a ogni cambio è proprio questa, far sì che per difendersi, anche questi attori politici che sembrano alternativi, tornino alle vecchie posizioni populiste, con sapore militare, con sapore a welfar state, qualcosa che assicura la mediocrità di ogni cittadino, qualcosa che comunque perpetua relazioni ambigue tra i generi, qualcosa che comunque serve per educare a una visione del mondo profondamente ristretta, fuori da ogni parto di dialogo storico, dove l’individuo senza le solite strutture sociali non è niente ed entra in preda di una depressione politica e sociale oltre che psicologica. Errori che si ripetono incessantemente, anche se gli uni accusano gli altri di averli propiziati, da un lato proprio in questi paesi dove comunque la maggioranza è sempre stata in balia di credi religiosi o politici con annunci assistenziali di liberazione che, in realtà, hanno fatto sì che la coscienza umana restasse legata al filo della dipendenza, e dell’infanzia spirituale e sociale, proprio perché chi assicurava la liberazione e la vita era comunque un intermediario, un mediatore e se rappresentante del sesso maschile, meglio.
Oggi, mentre i processi di autodeterminazione dei popoli si sono intensificati ciò che non si è intensificato è la struttura di questo processo che comunque segue sempre gli stessi parametri e dunque tiene, gli stessi rischi, cadendo in una prassi che più che assumere i colori di un processo di autonomia dell’essere umano, sembra restare costantemente ancorato a quello stato primordiale di bisogno che ha fatto dell’essere umano un essere religioso, ma decisamente non mistico o delle sue intuizioni sociopolitiche un eterno ritorno simile a quello dell’olimpo degli dei greci.
Come ci piacerebbe invece, pronunciare questa lamentazione al rovescio: …per fortuna oggi non abbiamo più principe, profeta, sacerdote… perché come si sognava in un altro testo biblico, per bocca del profeta Gioele, tutti hanno la possibilità di sognare: anziani e giovani, liberi e schiavi divenuti liberi… (Cfr. Gio 3,1-2).
Forse questa è una anarchica illusione, può darsi, ma è comunque una intuizione di chi continua a credere nei parti di sopravvivenza di donne e uomini comuni, nei percorsi della ricerca e dell’osare umano, nel desiderio di sfociare in altre dinamiche di resistenza e di vita, perché, come direbbe il filosofo Edgar Morin, la prosa ci fa solo sopravvivere mentre la poesia invece, ci fa vivere…
Purtroppo, ci sembra che la politica sia ancora legata alla prosa e che ogni cambio, in fin dei conti ci porta alla mediocrità di essere cittadini, indigeni o meticci, ma comunque mediocri cittadini assicurati dalla certezza che qualcuno penserà e veglierà su di noi e ci assicurerà la sopravvivenza.
Un’antica dialettica dunque, tra la mediocrità di una storia che mi assicura il sopravvivere e la creatività di un sogno che risveglia costantemente, come ispirazione poetica, per poter vivere e non solo sopravvivere.
Europa come sempre, soprattutto la sinistra, forse guarda con speranza a questi movimenti con sapore rivoluzionario dei popoli, forse anche per consolarsi o per tranquillizzare la propria coscienza dopo il fallimento di una politica nazionale ed estera decisamente mal gestita. E così, oggi come oggi a questo sogno si è aggiunto anche il mito di Obama con tutto ciò che questa persona rappresenta nell’identità individuale e collettiva della complessità nordamericana. Ma nella vita concreta di chi davvero ha lottato in lunghi e inquietanti dormiveglia e più volte, ha attraversando i sentieri del limite e della sopravvivenza, il mito non basta più. Così come non gli basta più il senso di un immaginario collettivo, perché vuole camminare ancora con le sue proprie gambe. È così che la sua creativa resistenza scompiglia le correnti sicure e statiche dei venti che nacquero come moti vorticosi incontenibili ma che la ufficialità li ha resi ripetitivi e piatti, come coltri pesanti sul cammino dei popoli. Riconosciamo dunque che noi esseri umani ci muoviamo ancora nell’ottusa visione di coloro che pensano che gli altri hanno sempre bisogno di qualcuno e così abbiamo costruito i nostri universi simbolici individuali e collettivi e atrofizziamo il sogno, per fortuna esiste una incoscienza totale, che sospinge i sogni e trasforma le notti in spazi di significative ricerche e di inquietanti attese.
Restiamo dunque attenti, attente, come testimoni di un sogno che si muove nell’esistenza di donne e uomini comuni che, probabilmente, senza conoscere tutta la storia ideologica dei partiti e delle correnti politiche, ha il bellissimo sentore di una «altra vita possibile», un’altra storia, un’altra logica, altri rapporti, altri scambi, altri progetti istituzionali, altre leggi e altri cammini culturali e sapienziali di questa sinergica storia eco-antropologica.

mercoledì 7 gennaio 2009

Intromettendomi nel dialogo tra Marcello Pera e Benedetto XVI

di Antonietta Potente

Ci sono dei momenti storici nei quali le idee sembrano seguire il flusso di movimenti ondulatori e irrompere sulle rive come se non se ne fossero mai andate. Anche se coscienti dei molteplici cambi epocali, ci sono visioni del mondo che paiono preferire gli eterni ritorni delle più certe sistematizzazioni ideologiche e dottrinali, in nome di una fedeltà che rende la maggioranza numerica di noi poveri mortali, insensati e moralmente peccatori. Certamente la nostra epoca è complessa; certamente le coordinate storiche su cui ci muoviamo, a volte sembrano essere molto disordinate. Nonostante questo, ogni lettura storica che fa dell’umanità e dell’epoca attuale uno spazio di totale contraddittorietà, dove, secondo questa visione, tutti camminiamo ambiguamente, abbagliati dalla luce della superficialità, mi sembra davvero riprovevole, oltre che suscitare in me, una profonda tristezza. A chi mi riferisco? All’eco che già c’è giunto via Corriere della Sera, in una lettera di Benedetto XVI, che raccoglie la trama principale della pubblicazione del libro del senatore e filosofo Marcello Pera, dal titolo: Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori).


Non voglio e non posso ancora addentrarmi nei dettagli del contenuto del libro, ma voglio farlo riguardo alla lettera che accompagna il testo di Marcello Pera, resa pubblica il 23 di novembre, pochi giorni fa, e che probabilmente è, allo stesso tempo, cassa di risonanza e ispirazione, poiché non è la prima volta che i due autori fanno un concerto a quattro mani su temi socio-culturali e religiosi (Senza radici, Mondadori 2004). Per ora, dunque, è solo la lettera di Joseph Ratzinger che provoca in me alcuni sentimenti e alcuni pensieri. Raccolgo dunque alcuni frammenti, per poi lasciare libero l’eco interiore che hanno suscitato in me.

Il primo frammento è con riferimento alle radici del liberalismo che si alimentano – secondo Ratzinger - nell’immagine cristiana di Dio. Non voglio fare un riassunto su ciò che s’intende per “liberalismo” e soprattutto sulle sue multipli sfaccettature assunte lungo la storia, ma ritengo inconsueto sentire affermare, senza ombra di critica, che il liberalismo è la condizione ideale per una cultura veramente cristiana. Forse questo mi appare ancora più strano, sapendo che Benedetto XVI sta commentando il testo di Marcello Pera, uno degli esponenti di quelle correnti politiche che hanno scalpellato gli ideali liberali fino a renderli a immagine e somiglianza di quelli dell’economia neoliberale. Il liberalismo italiano, pronipote del liberalismo anglosassone nato alla fine del secolo XVII e rappresentato, in Inghilterra, da David Hume, Adam Smith, Edmund Burke ed altri.

Com’è possibile affrettarci per trovare sintonie tra cristianesimo e liberalismo e dubitare, invece, su possibili dialoghi con culture e religioni di altre geografie storiche ed esistenziali? Com’è possibile cercare complicità, senza ombra di dubbio e senza paura, tra il messaggio cristiano e quello del liberalismo europeo e avere, invece, tanti dubbi e tanta paura quando si tratta di leggere il parto storico d’intere società e culture di fronte alla complessità e alle sue nuove esigenze vitali?

Com’è possibile benedire e affiancarsi al sogno di chi pensa a una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità?

Forse il concetto dell’ecumene evangelico, non corrisponde alla realtà cosmopolita di una Europa interrogata da altre culture e da altre religioni? O forse Benedetto XVI si è dimenticato che questo flusso e riflusso di persone, culture e religioni è dovuto anche agli ideali imposti di un certo liberalismo culturale e neoliberalismo economico e politico de nostri giorni, che sospingono interi popoli a sottomettersi agli imperativi sociali e ai miti culturali dei paesi così detti sviluppati?

Che cosa succede? Com’è possibile che chi, come rappresentante di una confessione religiosa che dovrebbe sostenere il sogno dell’estensione del pensiero, della comprensione delle idee e della sintonia dei gesti, appoggi, invece, con convincimento, che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile? Qual è secondo Ratzinger il dialogo interreligioso in senso stretto…? Perché, forse ne esiste uno in senso largo?

Infatti, il dialogo vero non si gioca nelle sfere più alte, perché la vita non è in gioco nelle sfere più alte delle nostre istituzioni, politiche e religiose, di per sé già morte. La vita è in gioco nei meandri più quotidiani di questa società europea in cui le persone cercano di dialogare non per mantenere privilegi e poteri, ma semplicemente per vivere, giorno dopo giorno. E sono questi gli ambiti in cui la fede sussiste comunque, tra cosmovisioni e gesti diversi, perché sussiste la voglia di vivere e la ricerca costante per abitare il mondo in un altro modo.

E’ vero, forse il cristianesimo potrebbe contribuire a questo nuovo volto dell’Europa, ma mi domando quale cristianesimo? Leggendo tra le righe, mi accorgo che Ratzinger, se avesse scritto più a lungo, avrebbe fatto ulteriori distinzioni e non solo sulle religioni, ma sull’unico specifico cristiano che, secondo lui può contribuire, cioè il cattolicesimo.

E allora gli altri, con le loro sapienze, esperienze, con le loro ricerche di Dio, di se stessi, della storia; questi altri che? Forse le loro evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni non servono, non contano, sono assurde? Ma questo mondo postmoderno è così cattivo?

Ma la teologia cattolica, non ha mai il dubbio della sua insufficienza? Quale privilegio abbiamo? Pazienza che questi dettagli non siano colti dal senatore Pera, ma un rappresentante di una chiesa e per di più un teologo: com’è possibile?

Allora, se scruto e mi soffermo, mi ritornano in mente le parole della figlia di una mia amica (una bambina di circa 9/10 anni) che una sera mi domandò cosa significavano le ombre, nell’allegoria della caverna di Platone. E’ vero, forse c’è bisogno di ricordare quest’allegoria e tentare una semantica del testo, per capire cosa succede nella teologia della chiesa cattolica.

Dei prigionieri sono legati in modo che possono vedere soltanto la parete di una caverna. Un grande fuoco, dal dietro, proietta delle ombre sulla parete. Che cosa vedono i prigionieri? Essi vedono le ombre proiettate dai loro corpi o da qualsiasi oggetto o sagoma che si proietti sulla parete. In poche parole, i prigionieri non possono vedere oggetti reali, ma osservano solo ombre bidimensionali proiettate da oggetti che, in realtà, non possono vedere veramente. Ed è per questo che non potendo vedere le cause reali delle ombre, i prigionieri pensano che le ombre sono l’unica vera realtà.

Sappiamo che l’antico filosofo, nel proporre l’allegoria, sperava di scoprire alcune proprietà del “mondo delle forme”. Oggi, quest’allegoria è divenuta molto importante anche per la fisica e, la fisica, ci aiuta a capire che ciò che vedono i prigionieri sono immagini bidimensionali, così che, loro, pensano che il mondo è solo bidimensionale. Questo, a mio avviso è il problema del pensiero teologico e della cultura europea di matrice cristiana oggi. Pensiamo di continuare a vivere in un mondo bidimensionale di cui ci assicuriamo conoscere tutto, anche se in realtà sono solo ombre, riflessi. Ma oggi, la storia, precisamente in quest’auto-riscoperta delle identità, si mostra in tutta la sua complessità e dunque diversità. Le culture sono espressione di una molteplicità d’individui, categorie sociali, soggetti di genere diverso, visioni del cosmo. La rivendicazione che il mondo oggi fa della sua maturità e dei suoi impulsi, non è un peccato deplorevole, ma piuttosto un’ iniziativa mistica, dal di dentro dell’essere umano, che si riscopre degno di prendere iniziativa e soprattutto desideroso di non abbandonare la storia per raggiungere l’essenza di sé, della verità e del mondo intero. Il mondo, oggi, non è più bidimensionale e forse la scienza potrebbe dirci qualcosa su queste inquietudini religiose e culturali dell’Europa.

E’ per questo che restiamo perplessi di fronte alle opinioni di un rappresentante religioso che non sostiene l’osato sogno di chi nella storia di oggi, con fatica, osa uscire dall’idea o dall’esperienza fatta nella caverna e, uscendo, percepisce altre dimensioni. Personalmente penso che cercare altre persone, altre idee, altri lineamenti, non solo storici ma anche trascendentali per ritessere la trama della vita sociale, affettiva, spirituale e politica dell’umanità, non significa perdere l’identità del proprio credo. Mentre invece mi sembra che precluderci al dialogo è un vero e proprio precluderci al mistero, alla rivelazione, alla complicità divina con l’umanità e la sua biodiversità cosmica. Certamente questo non è un cammino facile, certamente questo non è il frutto d’incontri sociali e politici, oltre che religiosi, che si fondano sulle logiche dei privilegi, a cui la chiesa cattolica, nel mondo intero, è da sempre abituata; logiche economiche, di potere, in nome del riconoscimento della propria fede.

Si tratta di un parto, di veri e propri dolori di parto; sono sforzi quotidiani, di cui forse chi sta in certi luoghi e legge la storia da un certo punto di vista, si è dimenticato o non ha mai conosciuto. Vivere le diversità costa, ha dei prezzi molto alti. Certamente è più facile omologare o meglio dominare, con un pensiero unico e testimoniare le scintille del vero con un’unica esperienza. Quando è così, forse finiscono i dolori del parto della creatività umana, ma anche, finiscono i sogni di tutti quei cambi storici reali e, invece, si riconduce tutto all’eterno ritorno dell’olimpo divino dei poteri religiosi e sociali.

Comunque, potremmo discutere fino all’infinito su questa lettura e interpretazione della storia e della vita, ma almeno facessimo memoria di qualcosa di molto semplice, che riguarda proprio le radici cosmopolite del cristianesimo primitivo, quelle raccontate dagli Atti degli Apostoli, quelle raccontate da Paolo. Forse tutti contesti ancora più bidimensionali di quelli che conosciamo noi oggi, ma che nonostante tutto, hanno permesso al cristianesimo di alimentarsi anche nelle circostanze più complesse e diverse, proprio nella sua caratteristica fondamentale di passione profonda per la riconciliazione.

Una passione che rende la teologia più apofatica, nel suo insufficiente linguaggio e per questo in ricerca, tra visione, ascolto e nostalgia per l’assenza, l’Assente e gli assenti. Un progressivo itinerario di svelamento di linguaggi alternativi, che curino le rughe non solo dell’umanità, ma anche di questa comunità credente cattolica prigioniera delle ombre. Mi auguro che qualcuno, uscendo dalla caverna, torni e ci racconti le multipli dimensioni della realtà e così continueremo a cercare, noi stessi e Dio che, secondo la visione di Ratzinger e Marcello Pera, sembra essere così estraneo alle nostre fatiche e timide comprensioni della vita. Personalmente spero che, ancora una volta, tutti coloro che bramiamo e osiamo il mondo in un altro modo, si sia perdonati per avere amato troppo e per aver dedicato la vita a cercarci reciprocamente e a cercare. Se oggi, la figlia della mia amica, torna a rifarmi la domanda, le risponderò che ogni ombra evoca qualcosa di più, non solo quello che ci sta dietro, ma quello che ci sta davanti e che sta fuori e che lei e solo lei, per essere fedele, dovrà scoprire con altre e altri.